NoIndex: nuove forme la suono e alla luce – l’intervista
Andiamo in Campania con il progetto inedito dei NoIndex firmato da Francesco Paolo Somma (voce, autore dei testi e compositore), Cris Pellecchia (bassista, compositore e arrangiatore dei brani) e, in aggiunta, la collaborazione di Gianfranco Balzano in qualità di live producer e sound engineer. Parliamo di questo primo lavoro di inediti dal titolo “3024” un ascolto scuro e viscerale dentro cui regna sovrano un altro ingrediente: la distopia di visioni future, in cui una società priva di emozioni realizza il controllo e l’omologazione globale degli individui. E come ogni visione sociale del futuro che si rispetti, anche qui incontreremo i “Residuali”, forme di resistenza al caos imposto. Un lavoro di alto artigianato tecnico e visivo: un concept che si dipana anche dentro preziose clip che troviamo in rete. Una bella chiacchierata a seguire con Francesco Paolo Somma:
Il vostro suono è un intreccio di elettronica, ambient e art rock: quanto conta per voi l’ibridazione sonora per rendere credibile un mondo futuristico e distopico come quello di “3024”?
L’ibridazione è necessaria, non solo estetica. Se vuoi costruire un mondo distopico, devi fargli parlare lingue diverse allo stesso tempo: la macchina, la natura, l’essere umano. L’elettronica ci permette di simulare l’ordine artificiale, l’ambient crea spazi sospesi in cui la percezione può deformarsi, mentre l’art rock introduce la frattura, la disobbedienza della forma. Non cerchiamo una “bella miscela”, cerchiamo collisioni sonore: il punto in cui due universi non dovrebbero toccarsi, e invece lo fanno. È lì che nasce la credibilità del futuro che raccontiamo: non è mai del tutto puro, è contaminato, incrinato.
E poi perché siete 1000 anni avanti? Curiosità direi immediata e inevitabile… come mai questa data?
Il 3024 non è tanto un “quando”, ma un “dove mentale”. Mille anni servono a creare distanza sufficiente per poter guardare al presente senza specchiarsi troppo direttamente. Se avessimo scelto il 2124, sarebbe sembrata una previsione; il 3024 è invece un’arena simbolica. In quell’arena puoi spingere la logica alle estreme conseguenze, puoi immaginare Ataraxia come un progetto già compiuto. Mille anni sono anche il ciclo delle memorie collettive: dopo un millennio, la storia diventa mito. E noi abbiamo voluto collocarci in quella soglia: tra cronaca e mito.
Ho come l’impressione che la voce dentro questo disco sia il simbolo umano che emerge dalle macchine. Sbaglio?
Non sbagli. La voce è volutamente imperfetta, vulnerabile, quasi fragile in certi momenti, eppure costretta a farsi largo tra muri di suono rigido e artificiale. È il nostro “residuo umano”: l’unico strumento che non possiamo sintetizzare completamente. Per me cantare significa abitare un margine: tra ciò che è ancora carne e ciò che già è stato codificato. Non è un urlo eroico, ma un sussurro che cerca di non essere cancellato. La voce diventa quindi un testimone: non rappresenta forza, rappresenta sopravvivenza.
Il vostro nome, NoIndex, rimanda a ciò che resta escluso, non indicizzato: pensate che l’arte debba sempre rappresentare ciò che la società preferisce nascondere?
Non credo che l’arte “debba” avere un compito unico, ma sicuramente è uno dei suoi poteri più vitali: dare forma a ciò che viene rimosso. “NoIndex” è il luogo degli scarti, delle memorie sottratte, delle identità non riconosciute dal sistema. Nel nostro caso, significa dare dignità narrativa a chi è stato cancellato. Ma in generale l’arte è efficace quando riesce a mostrare il lato non visibile, il lato che non entra nei circuiti ufficiali. Non perché sia necessariamente “vero” o “giusto”, ma perché è lì che pulsa la tensione che ci definisce. L’indice è ciò che la società ricorda; il “NoIndex” è ciò che insiste nel dimenticato.
Dal vivo e nella mostra che portate avanti: il pubblico è parte integrante. Un concetto che ci riporta indietro alle avanguardie sonore degli anni ’70. Che ragione e che ruolo ha per voi questo concetto? Che ruolo ha il pubblico?
Il pubblico non è spettatore, è specchio. In 3024 parliamo di memoria cancellata, e l’unico modo per opporsi alla cancellazione è che qualcun altro ricordi con te. In scena, il pubblico diventa archivio vivente: reagisce, interiorizza, restituisce. Non cerchiamo la frontalità della performance, cerchiamo un rito di risonanza. Per questo usiamo visuals immersivi, luci che non separano ma inglobano: vogliamo che chi guarda si ritrovi dentro l’esperimento. Non si tratta di “partecipazione” nel senso teatrale del termine, ma di corresponsabilità. Se il messaggio arriva, allora anche lo spettatore diventa Residuale, e porta quel segno con sé.
Secondo voi, l’ego delle persone sarà eliminato dal controllo totale? In qualche modo la compattezza e il suono “rigido” e sicuro di questo disco, vuole rappresentare un poco anche questo?
L’ego non verrà eliminato: verrà normalizzato, reso neutro, piegato in direzioni che sembrano innocue. Ataraxia non sopprime, atrofizza. È diverso: lascia che l’individuo si percepisca “libero”, ma dentro confini già scritti. Il nostro suono rigido vuole evocare proprio questo: la gabbia che non senti più come tale perché ci sei cresciuto dentro. La compattezza non è un inno alla sicurezza, è una denuncia della sua illusione. Ogni tanto però lasciamo che emerga una crepa: lì, nell’imperfezione, abita ancora un io possibile.
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